Long covid, scoperta genetica che aumenta il rischio secondo uno studio

scoperta di una variante genetica che aumenta il rischio di Long Covid
Un recente studio internazionale ha portato alla luce una variante genetica che incrementa del 60% la probabilità di sviluppare il Long Covid, un fenomeno sempre più oggetto di attenzione da parte della comunità scientifica. Questa scoperta potrebbe fornire nuove informazioni sulle conseguenze a lungo termine dell’infezione da Sars-CoV-2, come riportato da fonti ufficiali.
risultati del nuovo studio globale
All’interno della collaborazione nota come Long Covid Host Genetics Initiative, un consorzio di scienziati ha esaminato i dati genetici di 6.450 pazienti affetti da Long Covid, confrontandoli con quelli di oltre un milione di individui sani provenienti da 24 studi realizzati in 16 Paesi diversi. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Genetics, ha rivelato l’identificazione di una specifica variante genetica associata a un significativo aumento del rischio della malattia, confermato anche attraverso un’analisi indipendente su ulteriori 9.500 casi.
la genetica come chiave per comprendere il Long Covid
La variante identificata si colloca nelle vicinanze del gene Foxp4, noto per la sua rilevanza nello sviluppo e nelle malattie dell’apparato respiratorio. Secondo le parole di Hugo Zeberg, ricercatore presso il Dipartimento di fisiologia e farmacologia del Karolinska Institutet, “i nostri risultati suggeriscono che la funzione polmonare compromessa gioca un ruolo cruciale nello sviluppo del Long Covid”. Questa scoperta supporta l’idea che alcuni individui possano presentare una predisposizione genetica ai sintomi persistenti post-infezione.
Inoltre, come sottolineato da Hanna Ollila, ricercatrice al Massachusetts General Hospital co-direttrice dello studio, “gli studi genetici possono offrire preziose informazioni sui fattori di rischio della malattia e risultano particolarmente efficaci per quelle patologie i cui meccanismi rimangono ancora poco chiari”.
- Hugo Zeberg – Dipartimento di fisiologia e farmacologia, Karolinska Institutet
- Hanna Ollila – Institute for Molecular Medicine Finland e Massachusetts General Hospital