*Philip Roth, Patrimonio. Una storia vera. Trad. it. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, 2007. Titolo originale: Patrimony. A True Story, 1991.
È l’autobiografia di un pezzo di vita dello scrittore o il rispecchiamento di un parto prematuro di chi non vuole lasciarsi morire insieme agli altri. Il valore di un rapporto rafforzato dagli stralci di una malattia che non inganna, ma anche l’ironia di una composizione incerta, una borsa da portare su una spalla sola. Traballante è anche la famiglia che non vede il padre, mentre a vederlo è lo scrittore. Si aspetta la morte e si spera anche che non ci sia altro da fare: evitare l’operazione permette di allungare la strategia di fantomatica realtà, per dirla alla Moretti di Caos Calmo, che ogni decesso preannunciato affida alla fedeltà dei consaguinei. Philip Roth è Philip Roth. Ma è anche il padre morente che lascia tracce biologiche alla terra, la puzza degli escrementi, la paresi facciale, il senso di disuso che tanto fa male a chi gli offre riverenza. La sua storia, che è una, fa da fondale al mare di usanze e di partizioni ineque che la vita mostra. Ancora disuguaglianze religiose, oggi che la parola religione fa ridere molti artisti che si sentono esonerati dalla credenza, dal rito.
Ma se c’è il rito fa paura a chi non sa che farsene e continua a ferire i portatori di un handicap antico che è la speranza. C’è anche il ricordo, lievi flashback di una presenza materna già offuscata dalla morte. E ci sono fratelli evanescenti che appaiono per aspettare senza intervenire. Ci si accapiglia per un pezzo di corpo, mentre i pensieri se ne vanno a spasso tra le parole dello scrittore. Che dire di quello che va da una donna a una tomba, da un viaggio della speranza a quello di una semplice inflessione della soggettività “la morte”, assicurata alla riluttanza ad essere informata: chiusi in una casa, come in Moretti, per rincorrere quello che non c’è, ma per ospitare per un paio di giorni quello che dovrebbe essere certo, l’ultimo dialogo di un sognatore, o l’ultimo sogno di un dialogo tra genitore e figli. È un po’ come se l’autore dicesse a suo padre, al suo sogno e a sé: non ti volto le spalle, ma devo essere vittima anche per te. Poi non c’è altro da fare che riprendere le giornate da dietro le quinte e lasciare che nel viaggio leggero il dirimpettaio si rimetta a sorridere di sé, del suo corpo incontrollabile, degli orpelli che gli si affilano come spine. Si diventa qualche altra cosa, un serpente in Ovidio, un moscone, una principessa nelle storie di chi scrive per il fanciullo mai morto.
Chi crede nella verità si lecca i baffi, a non farsi sottrarre quel po’ di patrimonio che resta dai nostri avi. È il sincero disinganno che appare come pinza in ogni capitolo, per scomparire quando l’autore decide di non dire al padre del suo quinto bypass, quando lui stesso si sente un bambino e un nuovo, perché il suo sangue “poppa, poppa” ancora. Dal vedere al sentire, dialogo morto di un fare gravoso, quello di sentire ancora un legame, l’autorità diventa sincerità, e forma interiore a un corpo che può non essere più usato. Se fosse mio padre non sarebbe così, suggerisce lo scrittore, ma sarei io stesso ad essere lui e forse lo sono. Ma non è un finale introspezionista che ci concede, piuttosto uno estro-espressionista, in cui ogni attimo concesso al morente è sanzionato dalla carta vincente dell’abbandonarsi del senso ai sensi, per rinnegarli e non tornare più indietro. È rimasto nello sguardo di lui accasciato e morto il chiudere gli occhi che tanto aneliamo, sentendo di non poter fare altro che assaporare.