1. Marcel Duchamp
Nel Grande Vetro (La Mariée mise à nu par ses célibataires), opera alla quale Marcel Duchamp dedicò quasi un decennio (1915-1923), il rapporto esistente tra pensiero e opera è fondamento del suo significato. La trasparenza del ready-made è tale fin dal primo sguardo su di essa: è inserita come parte dell’opera per riflettere lo stato del pensiero alla coscienza. Ci sono almeno due elementi che si evincono dall’operazione progettuale di Duchamp: il primo è quello della prospettiva classica degli oggetti proiettati, il secondo è dato dall’insieme di impressioni che regnano all’interno della scatola ottica.
Lyotard ho congiunto la prospettiva e le condizioni di impressione della scatola ottica con la visuale carnale del Grande Vetro. Gli elementi di continuità coesistono con le trasmissioni nervose del cervello metaforizzate dal palo del telegrafo che si trova appeso all’Apparato Celibe. In tal senso l’interrogativo posto nell’osservare l’opera è la poiesi dell’opera. A partire dalla costituzione del complesso attraverso i Setacci, i testimoni oculisti con il loro nastro di specchio e i Pistoni di corrente d’aria con i loro contorni deformati, l’intero formalismo diventa una zona intermedia tra il senso ipotizzato e la multidimensionalità data dalla presenza della Sposa. Il significato non è rapportabile a un unico complesso di insiemi da rielaborare: l’intero è uno specchio della forma bidimensionale di ciascuna parte del Grande Vetro. La diagrammaticità della forma diventa il linguaggio stesso dell’immagine che Duchamp presenta come una serie di schemi, in primis rappresentati graficamente. Dalla forma bidimensionale a quella della messa in funzione del macchinario, l’operazionalità rimane immutata, mentre aumenta la sostanza immanente nella struttura.
In Tu ‘m (1918) Duchamp pone in risalto la relazione esistente tra la bidimensionalità della superficie pittorica che si manifesta come un banco di lavoro e la metarappresentabilità della prospettiva e del punto di vista. L’occhio umano pone interrogativi all’opera, nel senso in cui è l’opera stessa che interroga lo spettatore. Nel momento in cui Rauschenberg riprende il tema della bidimensionalità, negli anni sessanta, la sintesi formulata dalla prima elaborazione duchampiana assume caratteri determinati in termini di analiticità. Tale analisi, oggetto della dinamica esistente tra il colore e la forma geometrica, non detiene soltanto caratteri formali ma supera la progettualità iniziale.
La polisemia insiste sui momenti di riflessione, come nelle serigrafie che mirano a riprodurre la logica emozionale dell’opera. Il passaggio, condensato dallo sguardo, mira a ribaltare il rapporto tra il fruitore e l’artista. La creatività non è concentrata nella logica del concetto dato dall’artista ma si annida nell’insieme di stimoli che l’occhio umano allinea al dominio del significato. In assenza di un senso ultimo, l’oggetto della strategia dell’opera è una distruzione delle forme come mezzi per arrivare a un altro compimento: sono le linee e le geometrie che premono sull’espressione.