L’arte del Novecento è una risposta al dramma sociale, al cambiamento, conseguenza della coscienza dell’artista e dell’esperienza. La risposta modernista di Picasso permette di costituire un equilibrio sociale, con l’esplosione del dramma della guerra anche nella pittura. Il museo senza pareti prospettato da Duchamp, come nella “Scatola-in-valigia” rimette in gioco il readymade come anima non solo dell’opera ma dell’artista stesso. La visione ha diverse modalità di agire, mostrando il suo funzionamento attraverso la rielaborazione, anche dalla prospettiva del soggetto, della materia sulla quale lavora che ne porta in luce la complessità. Il Grande vetro di Duchamp è una risposta al modernismo, un rifiuto che permette la riflessione e la composizione di un mondo inconscio, portando lo spettatore oltre la struttura dell’opera. L’idea di un puro formalismo si perde nella deformazione che dall’autore arriva al gusto del pubblico. Il residuo è immanenza: l’informe diventa un’operazione dialettica che permette di dare forma, contemporaneamente, all’assoluto e all’entropia.
Nella visione di Bataille l’informe è ritrovabile in Malevic e in Mondrian. Lo sprofondamento e l’accumulazione sono forme di dispiegamento della scrittura e della pittura. Nel passaggio dalla cultura come forma estetica alla cultura documentata attraverso le opere, lo slittamento che si evince dalle tele e dagli studi sul colore coopera a rendere un’artificialità degli elementi naturali. Un esempio è quello del Situazionismo di Klein: il Vuoto è un simulacro di operazioni che possono avvenire soltanto nell’occhio dello spettatore. La natura duplice dell’arte informale, da un lato struttura e dall’altro funzione extraplastica del soggetto messo in forma nell’opera, pone il conflitto sull’informe. I modi attraverso i quali le immagini delle arti plastiche giocano con il segno grafico sono declinati nei livelli di attuazione dell’idea dell’artista.
Il limite dell’informe non è la struttura bensì il suggellamento dell’unione tra l’azione dell’inconscio e la figurazione, messa in atto dall’opera. Nelle arti plastiche, durante il novecento, i processi di differenziazione e di sintonia tra l’arte e la vita hanno modificato il modo di considerarne i modi di attuazione. Brodskij nel 1930 dipinge Lenin all’istituto Smol’ nyi dichiarando che non si trattava del risultato di una proiezione della fotografia, bensì del frutto di diverse fasi del lavoro con schizzi preparatori. Schapiro pone la domanda sull’arte astratta come protagonista copartecipe del contesto storico. Tuttavia, la prospettiva dell’opera non è solo quella della forma astratta ma quella funzionale alla natura deformata dalla sintesi plastica. Johns afferma che nessun artista determina la propria opera fino in fondo: il compimento immanente, dato dallo sguardo della persona, è la delineazione stessa dei parametri possibili.
A distanza di pochi decenni, nel 1974, Bürger affronta in modo diretto il problema dell’integrazione tra arte e società, per pensare a un antiestetismo non utopico. Le strategie degli avanguardisti sono esplicite quando considerano gli aspetti relativi alla società. Un problema che affrontano è quello della concezione del pubblico, nel senso in cui interviene il suo giudizio e quale sia quello specifico. L’ideale auspicato è un rovesciamento dello sguardo borghese sul rapporto tra il valore di scambio e l’uso estetico. Il fine della strategia teorica e pratica degli avanguardisti è quello di porre attenzione alla sfera pubblica proletaria. Il conflitto interno irrisolvibile, emerso con l’arte astratta, si ripropone nelle Neoavanguardie, con la multidimensionalità dei readymade, accanto alla pittura e al collage.