Nell’attuale società dominata dal consumismo siamo sempre alla ricerca di eroi, di opinion makers, di qualcuno da idolatrare e prendere ad esempio. Noi oggi volgiamo dedicare un omaggio ad alcune di queste persone, che però non vivono i fasti di cui godono i moderni eroi, quelli dello spettacolo o dello sport; al contrario, si muovono spesso nell’indifferenza, strisciano al fondo di un articolo o di un servizio con discrezione, senza urlare la propria esistenza, senza pretendere una gloria che non viene loro riconosciuta. Sono eroi senza volto, nascosti dietro una penna o una telecamera, presenze fuggevoli di una realtà lontana.
Parlare di giornalismo di guerra nel XXI secolo significa elevare al massimo splendore il prinicipio del diritto all’informazione, significa privilegiare l’uomo, il suo sviluppo e la sua affermazione, significa difendere un ideale di giustizia e uguaglianza.
Associare la guerra e il giornalismo significa osservare due facce di una stessa medaglia; quella macabra e violenta da un lato, figlia dell’egoismo e della sete di potere e denaro, e quella nobile e dignitosa dall’altro. Un rapporto nato nel 1854 con la Guerra di Crimea, quando lo storico Timesinviò il primo corrispondente di guerra della storia, William H. Russell. Da allora cambia la prospettiva stessa del conflitto. Non è più entità a sé stante: si trasforma e si conforma alla necessità dei popoli di essere informati. Gli eserciti non sono più gli unici protagonisti e testimoni delle crudeltà belliche, ma vengono affiancati da tutti quei giornalisti che rischiano, giorno dopo giorno, la propria vita in nome di un ideale.
Torniamo un attimo indietro, a quel 1854 che rivoluziona la concezione dell’informazione e la natura delle guerre. Le notizie arrivano dirette ai cittadini, fino ad allora abituati ad aggiornarsi tramite ridondanti ed opulenti resoconti di ufficiali sul campo, facili bersagli di notizie false e tendenziose. Russell porta nelle case la guerra in diretta, i tragici racconti dei morti e delle prime linee, gli errori dei generali. Nasce l’idea che le guerre le vincano di concerto eserciti e media, avvolti in un rapporto confuso ma di effetto sull’opinione pubblica.
Il giornalismo di guerra rimane un’attività deregolamentata fino allo scoppio della Grande Guerra. I governi e gli Stati Maggiori delle forze militari si rendono conto della profonda influenza che gli inviati esercitano su cittadini e soldati stessi, decidendo di “disciplinare” l’attività dei corrispondenti nel nome della sicurezza nazionale. Una forma di censura propagandistica che crea un coacervo di informazioni tendenziose volte a tenere alto il morale dei lettori, omettendo le crudeltà della guerra. Per cinquant’anni il giornalismo viene esautorato della sua funzione, privato della forza e della sua potenza.
La Guerra del Vietnam segna una svolta storica. Governi più lassisti e un’opinione pubblica fomentata dalle proteste del ’68 permettono il ritorno in auge dell’essenza del giornalismo. E’ la prima guerra che viene mostrata in televisione, la guerra meglio coperta dai mezzi di informazione, agevolati dalla natura di guerriglia e infiltrazione che il conflitto prende. Sarà un disastro per gli Stati Uniti, ma una vittoria memorabile per l’opinione pubblica. Per la prima volta nella storia i corrispondenti dei principali quotidiani nazionali si scagliano contro un governo e la sua politica estera, criticando apertamente la “sporca guerra”. Questa conflitto si rivelerà essere l’unico nel quale gli inviati avranno goduto della possibilità di accedere alle zone operative, creare contatti diretti con le proprie fonti, raccontare il conflitto in prima persona da dentro le trincee. Ma sarà anche la prima guerra televisiva; gli americani vedranno il sangue zampillare a colori sui propri teleschermi e i proiettili e le bombe stagliarsi nell’oscurità. La verità delle fonti ufficiali governative viene messa costantemente in discussione dalle immagini registrate, l’imbattibilità e il mito americano decadono. Con le televisioni che sfatano il mito delle bombe intelligenti nasce l’advocacy journalism, il giornalismo militante, indipendente dai poteri forti.
L’esperienza vietnamita ridimensiona le credenze di milioni di cittadini. I governi non possono permettere eventi simili e ritorna con prepotenza la censura governativa. La Guerra del Golfo ne è un esempio: la CNN, unica emittente televisiva a Baghdad, offre servizi anacronistici, concede spazi ai politici, asseconda il “filtraggio” alla fonte praticata dalle autorità militari. I giornalisti non godono dell’accesso ai campi di battaglia, ma si devono accontentare di rielaborare informazioni di seconda mano. Le successive guerre degli anni Novanta, spesso invisibili, mute urlatrici di una realtà straziante, sono il prosieguo di quanto sopra. Si parla poco dei conflitti in Africa, si parla non abbastanza della Bosnia e dei Balcani.
Quello dell’inviato è un mestiere difficile, guidato dalla passione per la notizia e non dai soldi, che i giornali faticano a elargire. Un mestiere povero di tutele legali, dove spesso non viene riconosciuta la superiorità dell’individuo rispetto al conflitto. Un mestiere in cui è facile morire, spesso senza essere ricordati. Quello di oggi vuole essere un invito a non dimenticare quanti rischiano quotidianamente la propria vita per offrire all’umanità una finestra sul mondo, per preservare il diritto di ognuno di noi ad essere informato. L’invito è quello di impegnarsi costantemente nella lotta alla censura, a difesa di un diritto inalienabile di ogni essere umano. Un diritto che deve essere immutato e garantito nel passato, presente e futuro di ogni ordinamento democratico.
Fonte:
TheFielder