Fra le varie categorie toccate dalla bozza del decreto sulle c.d. liberalizzazioni, pubblicata lo scorso 11 gennaio, è rientrata anche l’avvocatura. Due sono i campi di maggior interesse che vengono affrontati: le tariffe ed l’accesso alla professione.
Con riferimento al primo punto, la novità (apparentemente) più incisiva é l’abolizione integrale delle tariffe professionali, che fino ad oggi erano erano determinate per legge ed alle quali l’avvocato era tenuto ad attenersi, a scapito di sanzioni disciplinari. D’ora in poi, invece, il professionista sarà libero di determinare il corrispettivo delle proprie prestazioni senza vincoli, fatto salvo il dovere di pattuire tramite un preventivo scritto detto corrispettivo (sul punto torneremo in seguito). Ma secondo quali criteri?
La stesura delle note spese, oggi, é facilitata dall’utilizzo di programmi informatici che calcolano gli importi dovuti dal cliente applicando – dati alcuni parametri, quali valore e difficoltà della causa – ad ogni attività svolta un prezzo, seguendo appunto le tabelle in procinto di essere abrogate. Volendo escludere che il calcolo di prestazioni complesse, spesso espletate in un periodo lungo anche anni, possa essere effettuato a braccio e pur senza avere la presunzione di voler prevedere il futuro, é opinione dello scrivente che il Consiglio Nazionale Forense o i singoli Consigli dell’Ordine interverranno proponendo proprie tabelle, ovviamente non vincolanti, ma meramente indicative, presumibilmente simili a quelle vigenti, al fine di orientare la scelta degli avvocati.
Il lettore potrà pensare, a questo punto, che la non vincolatività di tali eventuali tabelle non impedirà una sana concorrenza fra gli avvocati, che non potranno più trincerarsi dietro tariffe blindate, da usarsi come scusa – questa la frequente accusa – per parcelle stratosferiche. Chi conosce da vicino la realtà dell’avvocatura odierna è consapevole, tuttavia, che questa lotta già esiste, sotterranea. Infatti, se sulla carta l’adesione alle tariffe è obbligatoria esistono in realtà, e vengono applicati, meccanismi piuttosto semplici per portare le parcelle sotto i minimi (non conteggiare alcune voci, ad esempio) e che anche i massimi possono essere derogati, previo accordo con il cliente. La mera abrogazione delle tariffe, quindi, rischia di essere un rimedio largamente insufficiente a raggiungere lo scopo prefisso, se esso é quello di promuovere la concorrenza fra avvocati, in vista di un abbassamento dei costi per l’utenza.
L’art. 8 del decreto introduce poi l’obbligo per i professionisti di concordare “in forma scritta con il cliente il preventivo per la prestazione richiesta”, misura che – vale la pena essere franchi – si appalesa subito come meccanismo di difficile o nessuna applicabilità, se non proprio privo di contatto con la realtà. Il perché é presto detto, come potrà comprendersi dall’esempio che segue, frutto della particolare esperienza dell’autore, ma nel quale molti potranno ritrovarsi.
Si ponga il caso di un cliente che si presenta dal proprio avvocato, riferendogli di volersi separare dal proprio coniuge e chiedendogli quindi un preventivo per il procedimento che seguirà.
A questo punto l’avvocato diligente dovrà far presente che esistono diverse possibilità, che variano da quella più rapida, economica e indolore costituita da una separazione consensuale, a quella più lunga e onerosa di una separazione giudiziale, magari con richiesta di addebito, che potrà protrarsi per anni (qualora ne sussistano i requisiti di fatto, ovviamente).
Occorre chiedersi, però, come é possibile prevedere a priori se tutto si risolverà in qualche incontro con la controparte e una breve udienza, o se, al contrario, saranno necessarie una dozzina di udienze, l’escussione di una ventina di testimoni, l’espletamento di una o più consulenze tecniche, magari anche di una rogatoria estera, quando il discrimine fra un estremo e l’altro é dato non certo o non solo dalla volontà dell’avvocato (o del suo cliente), ma anche dalla condotta di controparte, dalle decisioni del giudice e dalle situazioni contingenti eventualmente sopravvenute in corso di causa?
Credo sia chiaro che il massimo che un avvocato coscienzioso possa prospettare con sincerità le varie strade che il procedimento potrà prendere, indicando in linea di massima e con la dovuta approssimazione un range di spesa di massima per ciascun caso, senza che si possa pretendere una qualche capacità divinatoria da parte del professionista. L’imposizione di un solo preventivo é quindi del tutto irrealistica e denota una totale mancanza di conoscenza da parte del legislatore della realtà della professione forense, cosa che – mi sia consentita la polemica – non sorprende da parte di un Governo preso di peso dal mondo accademico.
Il secondo campo in cui il decreto si propone di intervenire é l‘accesso dei giovani all’esercizio delle professioni, che si é pensato di risolvere mediante la possibilità (si noti bene: possibilità e non obbligo) per le università di prevedere che la pratica necessaria all’iscrizione all’albo possa essere effettuata nell’ultimo biennio di studi.
La soluzione, sulla carta, é interessante, perché potrebbe contribuire a rafforzare ed accelerare l’introduzione dello studente a quel mondo, nel quale – novello laureato e praticante – si troverebbe diversamente proiettato, senza un minimo di esperienza di cosa effettivamente voglia dire svolgere la professione forense, con il conseguente spaesamento che tutti gli avvocati ancora ricordano. É certamente un primo passo, che postula, per essere di effettiva utilità, un necessario coordinamento con i Consigli dell’Ordine, che dovranno farsi parte attiva per far sì che gli studi legali destinino questi studenti-praticanti allo svolgimento di una pratica forense effettiva e non vengano impiegati (come sovente accade oggi ai praticanti) a funzioni di ben altra e meno nobile natura, quali tuttofare/fotocopiatore/segretario sui generis.
L’intervento sarebbe poi tanto più utile in quanto venisse abbinato ad una riforma integrale degli studi universitari, che renda l’esperienza accademica piú orientata al successivo esercizio delle professioni legali, ma ci si rende conto che questo é argomento che meriterebbe di ben altro spazio. Il punto, il cuore della questione, tuttavia, é un altro e il legislatore non pare averlo colto. Ogni decisione relativa all’accesso alla professione forense comporta un ponderato bilanciamento di due interessi: quello pubblico, consistente nell’avere una categoria professionale competente e quello privato, che riguarda il diritto dell’aspirante avvocato a godere di pari diritti nell’entrare a far parte della categoria e, soprattutto, di poter portare a frutto la propria competenza professionale. Ebbene, se la riforma muove qualche timido passo sul primo versante, é assolutamente ovvio che nulla faccia con riguardo al secondo.
Il vero ostacolo dell’aspirante avvocato, infatti, non é quello di accedere alla professione, ovvero di superare l’esame di abilitazione – che, ahimè, salvo rari casi non costituisce strumento efficace per far entrare i meritevoli e, soprattutto, escludere gli immeritevoli – ma quello di ricavarsi il proprio spazio professionale dopo il conseguimento del titolo.
I motivi sono vari e complessi e meriterebbero ben altra analisi e ci si limita qui ad evidenziare come una in categoria che conta circa il triplo di iscritti rispetto alla media europea, il vero problema non sia l’accesso, ma la spartizione di una torta che si fa sempre piú piccola, a dispetto del numero dei presenti al banchetto. Non a caso il Presidente della Cassa forense, Marco Ubertini, nel suo intervento al convegno “Gli avvocati e il sistema giustizia. Storie e prospettive nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia” nel 2010 sosteneva che “l’impoverimento della professione non è più solo un rischio, è una realtà”, arrivando a parlare di “proletariato forense”.
Cosa cambierà, quindi, concretamente per il cliente e per l’aspirante o neo-avvocato, se tale riforma dovesse essere approvata?
Per il primo, nonostante la speranza di trovarsi di fronte a tariffe più contenute, temiamo ben poco.
Il secondo potrà forse sperare in un percorso di studi più vicino alla professione, che non gli risparmierà tuttavia una dura gavetta.
In attesa di vedere quale sarà l’assetto definitivo della riforma, non può che auspicarsi che il Governo – dopo aver dimostrato di non avere le idee chiare sulla reale situazione in cui versa l’avvocatura – vorrà promuovere un confronto aperto con gli organi rappresentativi della categoria.
Fonte: TheFielder